lunedì 24 giugno 2013

Rimini

Nel 75 continuo a lavorare con mio padre presso terzi, il più delle volte in nero, queste erano le possibilità per chi voleva lavorare nel settore edile. Ormai avevo 21 anni e cominciai ad avanzare qualche pretesa in più, come gli altri miei coetanei, non facevo altro che sacrificare la mia gioventù lavorando tutto il santo giorno, per dare la possibilità a mio padre di poter rialzare la casa familiare.  Purtroppo non ce la facevo più a sopportare questo peso sulle mie spalle e così me ne andai di casa intenzionato a prendere in mano le redini della mia vita. Tramite un paesano potei entrare in contatto con uno di Brindisi, titolare di una pizzeria a Rimini.
Il 6 maggio del 76 mi trasferisco a Rimini pieno di speranza immaginando un futuro diverso da quello del muratore. La sera ero già in spiaggia quando in Friuli scoppiò il terremoto. Vidi traballare i lampioni delle strade e mi resi subito conto che la terra stava tremando ma non immaginavo che l’epicentro fosse a 350 km chilometri di distanza. Erano da poco scoccate le ventuno.
Cominciai a lavorare come cameriere per tutta la stagione estiva, sette giorni su sette. Quando andava bene si riusciva a dormire due o tre ore al giorno. Al lavoro duro ci avevo fatto i calli quindi non mi lamentai. Quell’anno non riuscii neanche a farmi un bagno al mare, figuriamoci andare a pescare, non se ne parlava neanche. Alla fine del lavoro stagionale mi ritrovai in mano una vera e propria miseria, oltretutto che non ero stato neppure assunto. Il mio compenso ammontò a settecentomila lire per cinque mesi di lavoro. Solo di mance superai quella cifra. Le mance le lasciavo a lui fiducioso di ricevere alla fine un bel gruzzoletto. Ci scontrammo. «Io qui non ti farò più lavorare», furono le sue ultime parole. L’anno successivo a fine stagione morì di cancro. Aveva fatto il dilettante nel pugilato e si credeva chissà chi.
Finita la stagione trovai lavoro come carpentiere e anche in questa occasione il datore di lavoro mi prese in simpatia, perché come sempre feci il mio lavoro con coscienza. Spesso mi invitava a casa sua a mangiare. Mi dispiacque di lasciarlo, quando grazie a degli amici riuscii ad entrare in una fabbrica, nella filiale nata sotto la Dogana di San Marino, facente parte del gruppo SCM, che costruiva macchinari per falegnameria, ai tempi un lavoro sicuro, al coperto. Tuttavia non mi sentivo completo, ero al pari di una macchina, io, abituato al cambiamento. Aprirono anche la mensa per i lavoratori e qualche volta durante la pausa pranzo si andava a prendere il caffe a San Marino.
 
 
 
 

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