domenica 4 agosto 2013

Il 2007, l’anno più nero che più nero non si può seconda parte


 TENDINI.
Nel 2007 erano ormai tre anni e mezzo che lavoravo in un’impresa a Ruda. Durante i lavori mi venne uno dei soliti dolori del lavoro alla spalla, e non diedi peso alla cosa. I dolori però peggiorarono e andai dal medico curante che mi fece la TAC, ma invece di mettermi in infortunio mi ha messo in malattia. Dopo due settimane di malattia venne in controllo il medico dell’Inps per vedere cosa mi era successo. Mi disse di ritornare al lavoro e se avessi avuto altri dolori di rimettermi in malattia.
Non potendo fare altrimenti ricominciai a lavorare, ma dopo due giorni di lavoro pesante mi si gonfiò la schiena e mi rimisi in malattia, come suggerito dal medico, aspettando il risultato della TAC, la quale rivelò una lesione ai tendini. Dopo qualche giorno mi contattò l’Inps per avere informazioni sull’incidente. Gli portai il risultato della TAC e finalmente capirono che non sarei dovuto stare in malattia ma in infortunio. Mi dissero che lo avrebbero comunicato anche per lettera all’impresa e al mio medico. Vero o no, questa lettera non la vidi mai nonostante i miei continui solleciti. Inizialmente mi dissero che si trovava all’Inps di Udine. Mi recai dunque all’Inps di Udine e li ebbi la sorpresa: mi dissero che avevano soltanto il mio primo certificato medico e non potevano rispondermi, perché non avevano ricevuto nessun documento da Cervignano. Non potendo ottenere, dunque, l’infortunio tramite Inps mi recai al sindacato, il quale mi fece aspettare 6 mesi per passare la visita presso il suo medico, disse che era passato troppo tempo e che potevo chiedere la malattia professionale. Ma non furono nemmeno i sindacati a presentare la domanda: dovetti andare io dal mio medico curante. Dopo di che portai il certificato all’Inail di Cervignano per la domanda di malattia professionale e mi dissero che per la visita ci sarebbe voluto un mese e che mi avrebbero ricontattato loro. Passò molto più di un mese e quando ritornai per avere informazioni sulla mia domanda, me la ridettero indietro, dicendo che non era completa. Il mio medico la completò e la riportai.
Passarono due mesi quando mi contattò il sindacato, per informarmi che il mio datore di lavoro mi voleva licenziare perché avevo finito il periodo di conforto. Informai di quest’ultima notizia l’Inail e mi spiegarono che finché la pratica non sarebbe stata chiusa non potevano licenziarmi. Con quest’ultima informazione mi presentai con il sindacato dal datore di lavoro, il quale mi rispose che ero in malattia da troppo tempo! Appena nominai l’INAIL subito tacquero.
Finalmente dopo qualche settimana mi contattò l’Inail per la visita. Il risultato fu che la mia malattia era diventata cronica. Siccome mi restavano ancora due settimane di malattia mi dissero di ritornare una volta finite, in modo che loro potessero valutare il tutto. Quando ritornai mi diedero un certificato da consegnare alla ditta. Nei documenti scrissero che ero guarito, e che potevo tornare tranquillamente a lavorare il giorno successivo! Va bene, lo portai all’impresa, ma questa mi lasciò a casa dicendo che avrebbe provveduto il suo consulente a risolvere il problema con l’INAIL. Restai per più di un mese senza lavorare, senza stipendio, dunque mi recai nuovamente all’Inail esponendo quanto stava accadendo; dovevano riunire il collegio. Passarono quasi due settimane e dopo esser ritornato diverse volte ancora niente. Mi recai così all’Inail di Udine per avere informazioni sul così lungo ritardo. Mi dissero che loro non avevano nulla, e che la pratica era stata mandata a Trieste, per la certificazione del grado di malattia professionale ci sarebbe voluto un “po’ di tempo”.
Nel frattempo vengo ricontattato dal sindacato per la faccenda del licenziamento. Mi propongono 1500/2000 euro al fine di un auto licenziamento. Era una proposta indegna. Che mi licenziasse lui, dissi al datore di lavoro, visto che non aveva una mansione adatta alla mia situazione, ma lui non accettò la mia proposta. Dopo l’incontro col datore chiesi al sindacato di tutelarmi ma lui mi rispose: “la ditta ti deve licenziare per forza, al massimo ti faccio avere qualche soldo in più!”. Rimasto deluso dal sindacato dopo tre giorni telefono alla ditta dicendo che non mi stava bene la proposta e che mi sarei tutelato con un mio avvocato, visto il comportamento del sindacato. Dopo due giorni la ditta mi richiamò a lavorare e mi presentai non subito ma il giorno dopo, visto che dovevo effettuare una visita. Chiesi alla ditta di farmi visitare dal medico, ma loro rifiutarono dicendo che se fossero sorti problemi di rivolgermi all’Inail. La prima mattina mi fecero dirigere il traffico durante i lavori, ma subito dopo tre ore fui mandato ai lavori pesanti con carriola e cemento. Mi si rigonfiò la spalla e il medico mi rimise in malattia professionale. Finalmente, dopo un anno di attesa, il 7 Luglio del 2008 ricevetti la certificazione dall’Inail. Mi avevano dato 8 punti e mi volevano liquidare con 8000 euro. Non accettai e dopo due ricorsi consecutivi mi riconobbero 16 punti, ancora pochi, ma li accettai. Equivalsero a 140 euro al mese che più avanti aumentarono a 160, che percepisco tutt’ora.
Successivamente inviai un fax alla ditta per chiedere una visita medica ma non ricevetti risposta. Denunciai il fatto all’Asl, la quale mandò un’intimidazione alla ditta a farmi visitare. La ditta, costretta, mi fece rientrare al lavoro e mi visitò il medico competente. Questo dottore, che non sapeva nulla delle mie precedenti malattie professionali, mi disse di andare pura a lavorare e che mi avrebbero fatto fare lavori leggeri, i quali si sarebbero rivelati pesanti come in precedenza. Mi rimisi in malattia e venni assistito dall’Inail. Mi rilasciarono ancora un nuovo certificato uguale al precedente, secondo il quale ero perfettamente guarito e potevo tornare a lavorare. Lo presentai al datore di lavoro e questo mi rispose: “O lavori al 100% e te ne stai a casa, non ho bisogno di un invalido!”. Andai così dal medico dell’Asl e la dottoressa con cui parlai minacciò il medico della ditta che avrebbe portato l’impresa davanti al tribunale. Questo intimidito disse che aveva già parlato con il datore di lavoro e che potevo tornare a lavorare. Il primo giorno mi scrissero una lettera di rimprovero e dopo 5 giorni mi lasciarono a casa in ferie perché c’era poco lavoro. Il 7 gennaio 2009 ripresi a lavorare e dopo nemmeno un mese mi misero in cassa integrazione. Dopo due settimane mi chiamò il datore di lavoro e ricominciai a lavorare otto ore al giorno per cinque giorni; poi le ore passarono a quattro al giorno. Contattai un altro sindacato e mi dissero che non potevano fare così: o mi facevano lavorare otto ore o mi lasciavano a casa. Durante le quattro ore di lavoro mi facevano spazzare il capannone e una volta finito il lavoro me lo dovevo trovare io! Siccome facevo lavori pesanti mi ritornò il gonfiore alla spalla e mi rimisi in malattia professionale. Dopo tre giorni mi avvisarono che la ditta avrebbe chiuso e che non potevo più continuare la malattia. Mi recai con il sindacato dall’impresa e il datore di lavoro disse che la liquidazione ce l’avrebbero data un po’ per volta. La lettera di licenziamento aveva degli errori e la riscrissero. Il sindacato non la lesse e firmando io e i miei colleghi perdemmo tutti i nostri diritti, come mi riferì poi il mio avvocato. Mi rivolsi all’ispettorato del lavoro, il quale mi riferì che quel tipo di licenziamento non si poteva fare, ma la mia firma lo rendeva valido. Rimasi senza lavorare per due 


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